Non inseguire i tuoi sogni
Supera te stesso e realizza i tuoi sogni. La cultura motivazionale della nostra epoca non fa altro che ribadire questi messaggi; come se non potessimo permetterci di rallentare.
xoş Bazar günü
Buona domenica, in azerbaigiano. Ho riflettuto sulla realizzazione di sé stessi, in un’epoca che fa grandi promesse, ma le mantiene raramente. Buona lettura.
Supera te stesso, realizza i tuoi sogni, non mollare mai, spacca tutto. La cultura motivazionale della nostra epoca non fa altro che ribadire questi messaggi; come se non potessimo permetterci di rallentare, di ammettere una sconfitta, di vivere senza lasciare il segno nello spettro dell’anonimato.
A partire dagli anni ‘80 dell’edonismo reaganiano, siamo cresciuti con i genitori che ci ripetono come un mantra che siamo speciali e che nella vita possiamo fare tutto quello che vogliamo, se lo desideriamo davvero.
Non credo che tutto a un tratto i nostri genitori siano diventati mental coach, quanto più che il capitalismo di massa abbia creato subdolamente il mito della realizzazione di sé stessi per dare un’ulteriore spinta ai consumi. La convinzione che ognuno possa davvero diventare qualcuno infonde l’intrinseca volontà di appartenenza e quindi di spendere soldi in status symbols e vestiario ambizioso, nella frequentazione di luoghi iconici per una cerchia specifica e nella continua formazione professionale (che oggi è la principale bolla speculativa in ambito professionale), “chi non si forma si ferma!”.
Poi sono arrivati i social networks che, attraverso l’infallibile operosità degli algoritmi, hanno decretato la supremazia della positività sulla negatività. Ciò che è positivo crea maggior coinvolgimento, e quindi maggiori introiti per le piattaforme. Se proprio qualcosa dev’essere negativa, allora dev’essere scioccante, divisiva e in ultimo istigare rabbia e odio.
La pacata tristezza di una giornata introspettiva, la lenta riflessione sui propri errori, l’accettazione del fallimento senza l’ottusa e immediata ricerca del riscatto non trovano ascolto nel palinsesto euforico e luccicante degli algoritmi.
Questo contesto è stato il terreno fertile per lo sviluppo di quel fenomeno definito dai sociologi positività tossica, ovvero uno stato mentale per cui accettiamo solo emozioni ed esperienze positive cercando in tutti i modi di evitare il dolore (algofobia).
I giovani self made men di Instagram e Tik Tok professano di svegliarsi alle 5 del mattino e dare sempre il massimo, mangiare bene, fare sport, lavorare sodo per 16 ore, fare un mucchio di soldi, viaggiare il mondo, godere appieno il tempo con la donna che si ama ed essere sempre, instancabilmente, felici.
Costruire la vita perfetta è un lavoro; La vita che traspare dallo schermo soltanto un prodotto artificiale finalizzato alla professione di influencer e celebrità.
Il problema è che la verosimiglianza di quelle vite le rende plausibili e desiderabili. Per questo siamo lacerati tra la perfetta copertina che mostriamo pubblicamente e l’imperfezione della nostra realtà.
Non è un caso che, con l’aumento della positività tossica, siano aumentati suicidi e casi di depressione nei giovani. Nei Paesi più ricchi del mondo, il tasso dei suicidi è aumentato del 10% ogni anno negli ultimi 30 anni!
L’umanità sta producendo un esercito di sognatori e idealisti che non tollerano il dolore, il fallimento, la disapprovazione, l’anonimato. Troppe proposte, troppi desideri, troppe voci, troppe occasioni da non perdere. Entropia e sirene.
Per cui mi chiedo cosa significhi oggi la realizzazione di sé. Questa propulsione irridentista per il successo è diretta verso una meta definita, o quantomeno definibile, oppure è soltanto una fatica prometeica che porta l’individuo alla disintegrazione dell’io?
L’idea di realizzazione personale che ci assilla così tanto è davvero la nostra, oppure scegliamo un kit preconfezionato tra i quattro o cinque che troviamo in vendita nella boutique dell’identità?
Voglio fare un salto indietro alle origini della nostra cultura. Secondo Aristotele, uno dei padri del pensiero occidentale, la realizzazione di sé stessi produce la felicità, il fine auspicabile della vita umana. La radice della parola greca per felicità è eudaimonia, ovvero la buona riuscita del proprio demone. Parafrasando, possiamo intendere il concetto di felicità dei greci come la realizzazione delle proprie virtù e dei propri talenti, il motivo per cui si è nati.
Ma c’è un ma; nel processo di realizzazione del sé non bisogna dimenticare di non oltrepassare il proprio limite. E come si fa a riconoscere il proprio limite? Secondo Socrate, nonno spirituale di Aristotele, bisogna conoscersi: nosce te ipsum. Conoscendosi veramente, si conoscono i propri limiti e le proprie virtù, ed è più semplice realizzarsi concretamente e nella giusta misura. Il paradosso della misura è che più ci si conosce, più si espandono i propri limiti e più si diventa consapevoli, in una spirale virtuosa.
Quindi che fare? È possibile realizzarsi ed essere felici? Ovviamente non lo so, ma posso raccontarti dei miei goffi tentativi per esserlo.
Sto cercando di vivere nel presente, di ascoltarmi al di fuori della confusione per scoprire quali sono le mie reali virtù, di riscoprire la pazienza, di concentrarmi sulla pratica e non sul risultato finale, di osservare l’evoluzione di me stesso con calma, facendo solidificare ogni strato prima di costruire quello successivo, di lasciare spazio per la sorpresa e la meraviglia, di fallire senza commiserazione, di soffrire senza analgesici, di aver paura nell’esplorazione dei miei limiti.
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