Cosa farsene dell'illuminazione
Attraverso le esperienze di risveglio si spalancano molti più dubbi che certezze, non c’è una meta finale dove cullarsi nella trascendenza.
Sono sempre stato attratto dalle esperienze di risveglio e le ho sempre ricercate, con gli strumenti che l’età o il caso mi mettevano tra le mani, lungo il cammino spesso caotico e incerto della mia vita.
Da adolescente mi capitava di fumare l’erba cercando di calcolare l’effettiva distanza tra le stelle nel cielo notturno finché non sentivo le vertigini provocate dalle grandezza di ciò che stavo osservando, o anche di ballare come fanno i danzatori sufi nelle campagne della provincia di Torino, finché non stramazzavamo a terra e ci stupivamo di quanto tempo passasse prima che ci rendessimo conto di essere caduti, oppure di correre fino allo sfinimento per superare la soglia del dolore, o semplicemente di fare il morto nel mare cercando di sincronizzare il mio respiro con lo sciabordio delle onde sulla riva, guardando il lento movimento delle nuvole nel cielo, che sembravano anch’esse respirare insieme a me e il mare.
Si trattava di brevi momenti contemplativi, quasi dei giochi che mi trascinavano in una dimensione che osavo definire mistica. Adoravo quei momenti. Anni dopo, durante l’università, ho sentito il bisogno di veicolare le esperienze liminali che avevo accumulato in una disciplina espressiva; così mi iscrissi a teatro, che rappresentò un laboratorio di vita nel quale mi immersi completamente per due anni, aprendomi a tutto quello che l’inconscio aveva in serbo. Negli ultimi anni invece, ho iniziato la pratica della meditazione zen e dello yoga, per mantenere un flusso costante di ricerca e illuminazioni intermittenti.
Ma perché, mi chiedo spesso? Cosa sto cercando? A cosa serve l’illuminazione?
Che ci si arrivi attraverso la preghiera, la meditazione, lo sport estremo, la privazione sensoriale o gli allucinogeni, le potenti esperienze di risveglio sono spesso ritenute in grado di svelare i misteri della vita, di fornire una forma finale di felicità, di rivelare una verità “superiore” o addirittura di portare a trasformazioni positive permanenti. Sembra tutto perfetto. Ma è davvero così?
Al contrario, ritengo che attraverso le esperienze di risveglio si spalancano molti più dubbi che certezze. Non c’è una meta finale dove cullarsi nella trascendenza e gli scampoli di verità raggiunti vengono costantemente messi alla prova dalle nuove sfide del quotidiano, in cui l’accresciuta consapevolezza deve scendere a compromessi e adattamenti.
L’illuminazione, o meglio le illuminazioni, le interpreto più come gli squarci di Eugenio Montale piuttosto che il nirvana eterno e incorruttibile: fugaci, temporanei, evanescenti, improvvisi lampi di senso che ci abbandonano troppo presto con l’ingrato compito di guardare il vecchio mondo con occhi nuovi.
Dopo l’illuminazione, è più probabile trovarci a raccogliere i cocci dell’io in frantumi che cullarci nella piena comprensione del tutto. Ma nonostante questo paradosso, sembra che homo sapiens abbia ricercato l’alterazione della coscienza fin da quando ha sviluppato il pensiero immaginifico, dato che i rituali mistici e le espressioni artistiche sono tra le prime testimonianze lasciate dai nostri antenati su questo pianeta.
Proprio l’altro giorno ho visto il video di questo gorilla dello Zoo di Dallas che inizia a girare in una vasca con l’unico obiettivo di “sballarsi” con le vertigini. Non ti sembra anche lui in preda a un’estasi mistica?
E poi, quando vago nell’incertezza dell’illuminazione appena svanita, mi dico sempre una frase (parafrasata) dallo Zibaldone di Leopardi: meglio triste e consapevole, che ignaro e stupido.
Quindi proviamo a rispondere: cosa farsene dell’illuminazione? Ho provato a ridurre la complessità di questo fenomeno in una manciata di concetti chiave.
Permette di conoscersi meglio affinando l’ascolto delle proprie intuizioni e adottando il dubbio come metodo, per abbattere falsi miti e bias cognitivi.
Traduce le intuizioni rivelatorie in punti fermi del proprio sistema di pensiero, da sviluppare creando punti di riferimento filosofici, culturali ed etici per orientarsi nei vari contesti con una bussola intima e personale.
Permette di essere se stessi con una maggiore sicurezza, pur rischiando di perdere qualcosa o qualcuno, facendo talvolta scelte non convenzionali ma dettate da una forte necessità interiore.
Come dice il mio maestro di meditazione, ognuno di noi si trova su questo mondo con una fiaccola in mano. Più è grande la tua consapevolezza, più è potente la luce della fiaccola, più particolari riesci a vedere dell’ambiente circostante. Forse l’abbiamo chiamata illuminazione proprio per questo, perché ci illumina lo spazio che occupiamo.
Negli stati più intensi, ci fa scendere dal piedistallo evolutivo per mischiarci in un ballo atomico con tutto quello che ci circonda. Date le grandi imprese che ci aspettano, soprattutto nei confronti del cambiamento climatico, ritengo che questa sensazione possa essere molto utile per un ribaltamento della prospettiva comune.
Al tempo stesso bisogna ricordarsi di non sopravvalutare la propria esperienza, ritenendola un fatto puramente umano che non conferisce nessuna patente di superiorità, cosa purtroppo molto facile per il nostro ego.
Personalmente, ricado talvolta in una risacca di senso che mi costringe a cercare e a rivedere la mia mappa di comprensione del mondo, in una costante dialettica hegeliana di tesi-antitesi-sintesi (grazie Jacopo per la metafora) dove i pezzi si uniscono, si sfaldano e si ricompongono in forme nuove ed evolute.
Hai mai provato un’esperienza di risveglio? (se ne vuoi parlare sono qui)
Sei un illuminato? (scrivimi e raccontami!)
Non hai mai provato la meditazione o esperienze simili? (magari si organizza qualcosa)
In questo numero non ci sono i consigli di lettura, come di solito, ma voglio riprendere la riflessione dell’ultimo numero di Let Me Tell It per spiegare un po’ le motivazioni che stanno alla base di Trasumanare. Cito:
D’altronde, la prospettiva è il punto di vista che solo noi possiamo dare ad un contenuto e l'insieme delle esperienze, dei valori, del nostro passato, che formano una lente concreta e unica attraverso la quale interpretiamo il mondo.
E immagino, nemmeno in un futuro lontano, che abilità e coscienze così umane, difficilmente faranno parte del bagaglio tecnico di un algoritmo creato in un qualche open space a San Francisco.
Riprendo la parola. In un mondo che sarà sempre più popolato di contenuti standard generati generati dall’intelligenza artificiale, credo sarà sempre più importante condividere voci il più possibili umane, fatte di errori, dubbi, ripensamenti, confronti e parziali conquiste.
Per questo sono d’accordo con Harari quando dice: