Essere normali non esiste
Che sia un particolare fisico, un comportamento inconsueto o un desiderio nascosto, ognuno di noi scappa continuamente fuori dal recinto fittizio della normalità.
L'uomo è un animale che vive d'abitudini. Si affeziona ai luoghi, detesta i cambiamenti. Scriveva così John Steinbeck, nel suo romanzo Furore.
Essendo un animale abitudinario, homo sapiens non è mai andato molto d’accordo con il diverso, lo strano, l’inconsueto, l’imprevisto, l’anormale.
Chiunque, a modo suo, è intimorito da ciò che gli è estraneo. People are strange, when you are stranger, cantava Morrison.
Questo ci capita perché sentiamo il bisogno di appartenere al nostro gruppo di riferimento, per non perdere l’orientamento e costruire un’identità in grado di farci riconoscere. Come insegna Galimberti, i greci avevano già capito che l’identità è un dono sociale, e che una persona sola, è una persona morta, perché incosciente di sé.
Camminando per Milano, Berlino, Seoul o Los Angeles, può sembrare che la stravaganza sia la vera cifra identitaria del contemporaneo: un motto di rifiuto, ribellione e liberazione. In effetti lo è, ma sempre nei-confronti-di un altro contesto, e in-sintonia-con il proprio.
A questo proposito, l’antropologo Ernesto de Martino parlava di relatività delle categorie, riferendosi al fatto che anche i concetti più generali e diffusi come il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e lo sbagliato, sono veri e condivisi finché sono circoscritti all’interno di una determinata cultura che li difende e li condivide.
Differenti culture o gruppi sociali generano differenti sistemi di riferimento che contengono differenti categorie. Non solo, una stessa cultura o gruppo sociale può modificare una sua categoria al variare del contesto storico/politico/culturale.
Ad esempio, nell’Europa del dopoguerra, l’ideale di bellezza femminile esigeva prosperosità e carne a cui aggrapparsi sui fianchi come rifugio alla fame e all’indigenza. Pochi decenni dopo, durante gli anni del boom economico e dell’abbondanza alimentare, lo stesso ideale è stato sovvertito dalla stessa cultura, per contrasto, con una magrezza quasi patologica. Ancora oggi, i crescenti disturbi alimentari come l’anoressia non sono altro che l’esigenza collettiva di appartenere a un ideale di bellezza condiviso.
Faccio un piccolo inciso personale. A causa di un incidente piuttosto splatter che mi è successo all’età di 7 anni, sono un cosiddetto invalido, per la precisione al 67%, anche se non mi sono mai sentito non-valido in vita mia.
Durante una gita domenicale di fine maggio del 1995, in uno zoo di provincia, uno scimpanzé decise di mordermi il braccio destro, staccandomi un osso e lasciando penzolare dal gomito quello che ne restava. A distanza di quasi 20 anni e 11 operazioni, il mio braccio è più piccolo, esile e “bruttino” da vedere.
Ma perché te ne sto parlando adesso? Perché lo scorso weekend ho trascorso il primo weekend al mare della stagione, e come tutti gli anni la nudité della spiaggia mi espone agli sguardi tra il compassionevole e l’incuriosito delle persone intorno a me.
Nei loro occhi leggo la mia anormalità, nei loro atteggiamenti leggo la commiserazione per il dolore che devo necessariamente provare. Perché il mio braccio non è “normale” rispetto al loro contesto di riferimento, e questo suscita scalpore e sorpresa. Due sentimenti che si acuiscono e si fondono con l’ammirazione (talvolta) quando faccio una nuova conoscenza, la quale, non manca di non manca di congratularsi poiché, nonostante l’incidente, io sia una persona energica, entusiasta, determinata, di successo (qualsiasi cosa voglia dire).
Ma perché, nonostante? Io preferisco grazie a.
Grazie all’incidente ho sviluppato forza di volontà, fiducia nel futuro e maggiore voglia di vivere.
Grazie all’incidente ho iniziato a farmi le domande sul destino, sulla felicità e sul significato della vita che mi accompagnano ancora oggi.
Grazie all’incidente ho saputo apprezzare la fortuna di godere della salute, della facilità di potersi fare una doccia senza l’aiuto esterno o anche soltanto della straordinaria sensazione delle dita che scorrono sui capezzoli turgidi.
Nel giudicare gli altri, ci dimentichiamo che sono proprio gli elementi anormali, tipici e distintivi che ci rendono migliori. Probabilmente perché negli altri cerchiamo l’attestato di normalità che internamente sappiamo di non meritare. Ma cosa diavolo è la normalità, e da dove arriva?
La nozione di normalità nasce nel 1835, quando l’astronomo belga Adolphe Quetelet iniziò a utilizzare un metodo di calcolo astronomico per confrontare le caratteristiche umane. Sto parlando della “distribuzione normale”, che veniva utilizzata per correggere gli inevitabili errori sulle misurazioni degli oggetti celesti. In pratica, facendo più misurazioni di uno stesso oggetto, si poteva assumere che il centro della curva dei risultati fosse il valore più vicino al dato esatto, perché media ponderata di tutte le rilevazioni.
Quetelet, a un certo punto, ipotizzò che lo stesso principio potesse applicarsi anche alle persone. Ad esempio, misurando l’altezza di tutti gli abitanti del Belgio, si poteva evincere quale fosse l’altezza “corretta” di un belga. Quindi, un metodo valido per calcolare la distanza di un pianeta dalla Terra divenne altrettanto valido per decretare le caratteristiche ideali del cosiddetto “uomo medio”.
Anche se, nel concreto, nessuno risultava perfettamente aderente a tutte le medie, questa “teoria” divenne l’arma perfetta per l’esclusione e l’antisemitismo, come tristemente si sviluppò sotto la dittatura nazista, che sfruttò in pieno la categorizzazione e la misura delle caratteristiche fisiche per discriminare sistematicamente coloro che, a tavolino, si voleva escludere.
E tu, ti sei mai chiesto o chiesta se sei normale o no? Cosa intendevi, davvero, con questa domanda?
Forse ti preoccupavi che il tuo aspetto o il tuo comportamento non fossero in linea con quello ideale? O forse ti stavi chiedendo se fossi adatto o adatta a un certo contesto?
Puoi smettere di farti domande come queste, perché nessuno è mai stato davvero nella media. Che sia un particolare fisico, un comportamento inconsueto o un desiderio nascosto, ognuno di noi scappa continuamente fuori dal recinto fittizio della normalità.
Al contrario, è nelle nostre diversità che troviamo la vera connessione con gli altri. È quando ci mostriamo con le nostre imperfezioni che impariamo ad amarci, è quando riveliamo placidamente le nostre intime ossessioni che si creano le vere amicizie, é quando ci mostriamo diversi come tutti gli altri, che troviamo la nostra reale identità.
Consigli di lettura
Non possedere nulla per avere tutto
Il solito video illuminante di Harari sul futuro dell’umanità, in compagnia dell’intelligenza artificiale.
Cosa rende, ancora, Ode su un'urna greca di John Keats così straordinaria? - ENG
Grazie Andrea, il Ted non lo conoscevo ma credo tu ti riferisca a "Il potere della vulnerabilità". Ora lo guardo anch'io :)
Leggendo mi é tornato in mente un Tedx che condivideva come rendersi vulnerabili sia difficile ma faccia raggiungere la libertà. Grazie degli spunti!