La bellezza come antidoto alla paura
Se ogni elemento va d’accordo con gli altri, se tutti collaborano all’equilibrio dell’insieme, si crea l’armonia.
Questa estate, insieme alla mia compagna, abbiamo percorso a piedi il tratto della Via Francigena che va da San Miniato (in Toscana) al lago di Bolsena (nel Lazio). Abbiamo camminato per circa 200km, in otto giorni di cammino durante i quali mi è capitato spesso di vivere una profonda sensazione di bellezza e trascendenza. Con un certo imbarazzo, mi sono accorto di non essere più allenato a tutta quella bellezza: così tanta, così frequente, così intensa.
Vivendo spesso in città monocromatiche, svolgendo per lo più attività “da scrivania”, solito a vedere il cielo attraverso fette sottili tra i balconi e le terrazze, è come se mi fossi dovuto riabituare alla bellezza, come quando la domenica mattina qualcuno spalanca di colpo le finestre e gli occhi fanno fatica a mettere a fuoco la luce del giorno.
Talvolta mi capitava di chiedermi: perché un gregge di pecore, una macchia bianca che si muove lentamente sul versante di una collina, ci sembra bello? Perché i filari ordinati dei vigneti che a tratti tradiscono le torri, le mura e le case rossastre del borgo di Montalcino, risultano meravigliosi? Perché il suono dei propri passi in una San Gimignano deserta alle 5 del mattino, ci riempie di gratitudine e ci solletica il cuore con un improvviso eroismo?
E poi c’era un altro tipo di bellezza che ho imparato a riconoscere; una bellezza viscerale, struggente, tale da farmi ripescare dal cassetto delle nozioni universitarie l’idea dello Sturm und Drang romantico.
Voglio raccontarti questo episodio. Una mattina all’alba ci avvicinavamo all’ingresso di un bosco; passo dopo passo iniziammo a sentire degli strani lamenti provenire dalla folta chioma degli alberi che lo costeggiavano. Giunti abbastanza vicino ci rendemmo conto che si trattava di un nutrito branco di cinghiali. Il percorso della Francigena ci avrebbe diretto esattamente da loro, per cui decidemmo di deviare su una strada laterale, nel silenzio improvviso delle frasi sussurrate, nei passi felpati, nel battito cardiaco accelerato e nel sudore freddo alle tempie. Prima finimmo per trovarci in un campo enorme di girasoli mentre questi sbadigliavano e sollevavano la testa verso il sole appena spuntato dietro la collina. Poi camminammo per circa un’ora in una mulattiera stretta e ripida, piena zeppa di ragnatele e sterpaglia. Finalmente sbucammo nel cortile di una cascina e poi sulla prima strada asfaltata per fare l’autostop e tornare verso il percorso tracciato.
Fu un momento delicato, pauroso, imprevedibile, faticosissimo, ma profondamente bello. Perché?
Poi ci furono le vesciche ai piedi, la stanchezza accumulata, il calore a tratti insopportabile, la cervicale e la sete; tutti “incidenti” o “disagi” che, se vissuti in altri contesti sarebbero finiti senza dubbio nel cestino delle esperienze “negative” o “spiacevoli”, durante il cammino non ho potuto fare a meno che definire “bellissimi”.
La bellezza è mutevole, mimetica, inestricabilmente legata all’esperienza soggettiva - pensavo - Esiste un valore di bellezza condivisa, oppure ognuno si costruisce la sua?
Mi serviva di più. Così, una volta tornato a casa, mi misi alla ricerca di quello che è stato scritto fin qui sulla bellezza, inciampando su questo libricino di Philippe Daverio, che è stato fondamentale per costruire la trama del mio ragionamento.
Mi sono accorto abbastanza presto che esistitono due principali linee di pensiero sul significato e l’essenza della bellezza, le quali sono state originariamente partorite dai due pilastri del pensiero occidentale: Platone e Aristotele.
Il primo concepì il bello come un'idea perfetta e astratta da rincorrere, che cade dall'iperuranio sugli uomini che devono imparare a coglierla. A partire da questa lettura, qualche secolo più tardi, la cristianità ha tradotto la perfezione delle idee platoniche nella profusione della grazia di Dio, espressa da Sant’Agostino come la pulchritudo dei.
Secondo Aristotele invece, il bello è da raggiungere attraverso la sperimentazione e l’esperienza diretta dei propri sensi, fornendo un supporto filosofico fondamentale allo sviluppo del metodo scientifico galileiano, basato su prove empiriche ed esperimenti diretti.
Se Platone declassava la conoscenza sensibile, ritenendola limitata e impermanente nei confronti del mondo perfetto e immutabile delle idee, Aristotele rivalutava l'esperienza diretta, poiché sono i sensi e le intuizioni che ci permettono di giungere alla verità.
Ne deriva che la concezione Platonica giustifica la Scolastica medievale, il Classicismo, la poetica di Petrarca, il Rinascimento, l’ambizione alla perfezione, all’ordine, alla misura, alla quiete. Mentre quella Aristotelica sposa il progresso tecnico e scientifico, la carnalità e il gusto per il macabro dell’inferno dantesco, la sofferenza e i pianti degli affreschi di Giotto, l’eccitazione gorgogliante del Barocco, la visceralità del Romanticismo, la trance agonistica, l’estasi animalesca del sesso.
Non a caso Friedrich Nietzsche, una delle menti più visionarie dell’epoca moderna, ha identificato questi due impulsi irrefrenabili dell’essere umano ne La nascita della tragedia, dove introduce i termini di apollineo (l’aspirazione alla grazia, alla luce, alla perfezione) e dionisiaco (l’aspirazione alla sensorialità, all’ebrezza, alla corporalità).
È come se ognuno di noi, in una costante contrapposizione esistenziale, aspirasse al raggiungimento di entrambe le idee di bellezza: da un lato alla perfezione e alla trascendenza, dall’altra alla visceralità dei nostri istinti più nascosti. Non capita lo stesso anche a te?
Ecco perché, in un pomeriggio soleggiato di agosto, seduto su una panchina affacciata sulle colline della Val d’Orcia, non potevo fare a meno di considerare “bello” infilarmi un ago dentro una vescica del piede, almeno quanto lo fosse il panorama verde e dolce di fronte a me. Da un lato l’esperienza, dall’altro la contemplazione.
Ma c’è un altro filosofo, antecedente sia di Platone che di Aristotele, che probabilmente aveva già anticipato e sintetizzato queste due visioni apparentemente antitetiche. Sto parlando di Pitagora, che visse dalle parti di Crotone, il cuore della Magna Grecia (a pensarci oggi…), nel VI secolo avanti Cristo.
Per Pitagora la bellezza risiede in una parola emblematica che lui stesso ha contribuito a diffondere: l’armonia, ovvero il fondamentale rapporto di equilibrio che soggiace ogni cosa. Tutto è numero, e le relazioni tra i numeri si traducono nelle leggi del mondo fisico. Tutto è connesso da relazioni di armonia cosmica, dalle stelle ai fili d’erba, dalla melodia musicale alla geometria. Un meraviglioso monoteismo matematico.
Nel XIII secolo, questo concetto viene insospettabilmente ripreso nella debita proportio di San Tommaso d’Aquino. Ovvero, le cose stanno insieme se hanno una proporzione dovuta.
Se ogni elemento va d’accordo con gli altri, se tutti collaborano all’equilibrio dell’insieme, si crea l’armonia.
Ma perché non trasferire questo principio in una riflessione sulla tua vita? In fondo, l’armonia delle cose è anche l’armonia con te stesso/a, con il tuo modo di vivere, con il tuo passato, con il tuo contesto socio-culturale. Se il bello è nell’equilibrio degli elementi, allora lo è soprattutto nella tua capacità di abbracciare la vita in tutti i suoi aspetti, anche quelli più complicati e dolorosi.
Quando c'è armonia, sei consapevole di muoverti all’interno di un progetto comprensibile, dove anche la sofferenza, il dolore, l’angoscia e la paura costituiscono elementi utili, anzi imprescindibili, al compimento stesso di quel progetto, perché contribuiscono a mantenere l’equilibrio tra le parti.
Pensaci bene: quando il dolore e la fatica fanno parte di un obiettivo preciso, non ti spaventano. Anzi, spesso diventano desiderabili, poiché sei consapevole che il loro superamento sarà il mezzo per sublimare l’esperienza rendendola più intensa, indimenticabile e bella.
Lungo il cammino della Via Francigena, l’armonia tra le parti era totale. La fatica e il sudore della mattina lasciavano spazio alla quiete sonnolenta del pomeriggio e al piacere godereccio delle cene innaffiate con il Chianti, in un ciclo perfetto di fatica e riposo.
Sono convinto che l’ansia e lo spaesamento trovino terreno fertile nei nostri pensieri soltanto quando galleggiamo nell’incertezza di una vita senza obiettivi, senza una meta, senza armonia.
Dunque, piuttosto che combattere il malessere anestetizzandolo o cercando di estrometterlo con la forza a suon di aperitivi e occupazioni continue, prova a concepire qual è l’armonia in grado di tenere in equilibrio le parti discordanti della tua vita.
Abbandona le note discordanti, definisci le tue priorità, le tue ambizioni, le qualità umane che ti sono preziose, e cerca di farle stare insieme, ascoltando il suono armonico della loro relazione. Dopotutto, non è questo lo stato di flusso di cui parlano molti guru contemporanei?
Al contrario, quando avverti la cacofonia significa che un certo luogo, persona, lavoro, vestito, alimento…non sono abbastanza “belli” da risuonare con la tua armonia. Non aver paura di lasciarli andare. Quando troverai il bandolo della tua matassa esistenziale, anche i peggiori demoni diventeranno i tuoi migliori alleati.
Consigli di lettura
Se ti interessa, in questo post su Instagram ho pubblicato qualche foto del cammino.
Sul libro del Generale Vannacci è stato detto molto. Sicuramente merita la lettura del discorso del Presidente Mattarella, che lo sculaccia senza citarlo mai. Notevole.
Wirecutter è il magazine del New York Times che vuole recensire la migliore cosa di qualsiasi cosa.
Dai creatori del documentario Netflix, The Social Dilemma, questo video intitolato The A.I. Dilemma.
Anche se non sei sotto l’effetto di sostanze psico-attive, questo album è fantastico per concentrarsi, rilassarsi o volare con la mente.