Meglio essere specialisti o generalisti, per costruire una carriera?
Gli specialisti hanno vita più facile: possono spiegare facilmente cosa fanno, come lo fanno e provare in modo tangibile la loro esperienza. Ma le cose stanno cambiando.
Non sono mai stato uno “bravo” a scuola. Fino alle superiori non portavo nemmeno lo zaino in casa per fare i compiti. Lo lasciavo nella Panda di mia madre così era già pronto per il giorno dopo. Però ero quello che veniva definito “intelligente ma non si applica”: mi bastava origliare qualche scampolo di lezione per cavarmela nelle verifiche e nelle interrogazioni, pure al liceo in verità.
Non avevo una materia preferita, almeno fino alla quarta/quinta superiore, quando l’arrivo di un nuovo professore mi ha fatto capire che in realtà adoravo le lettere e le materie umanistiche. Ho scoperto che mi piaceva da matti riflettere sull’uomo e sul mondo, conoscere le emozioni umane di protagonisti nei romanzi, perdermi negli azzurri di Renoir e nei dettagli di Caravaggio, cullarmi ad occhi chiusi con le canzoni di Battiato o della settima di Beethoven.
E così mi sono iscritto all’Università di Lettere Moderne. Senza un motivo o una via precisa da seguire. Non sapevo se avrei fatto l’insegnante, né un altro lavoro che potesse rientrare nella galassia delle scienze umanistiche. Ero sicuro soltanto di una cosa, come dissi in un viaggio in treno a una compagna di studi: Il lavoro che farò da grande è un lavoro che oggi non esiste. In effetti lo è diventato, e il bello è che sono ancora convinto di quell’affermazione. Chissà cosa farò tra 10 anni che oggi ancora non esiste.
In queste settimane, ad esempio, sto facendo un master di prompt design per l’intelligenza artificiale. Perché sono sicuro che le aziende ricercheranno sempre di più questa figura. Ma tu l’avresti mai immaginato, solo un anno fa, un mestiere chiamato prompt designer?
Ma rispondiamo alla domanda di questo numero: è meglio essere specialisti o generalisti nella propria carriera lavorativa? Ebbene, io sono un generalista estremo, non senza difficoltà, come vedrai più tardi, mentre il mondo del lavoro è sempre stato propenso alla ricerca di specialisti. E in effetti gli specialisti hanno vita più facile: possono spiegare facilmente cosa fanno, come lo fanno e provare in modo tangibile la loro esperienza. Ma questo significa che è intrinsecamente meglio perseguire la massima specializzazione? Credo che le cose stiano cambiando. Seguimi.
Perché essere uno specialista
Ricordo (vado a memoria) una battuta di Picasso nel film I colori dell’anima. Per pagare un pranzo al ristorante, Pablo disegna un schizzo su un tovagliolo e lo porge all’oste. Guardandolo l’oste gli chiede: Me la fai almeno la firma? E Picasso gli risponde, beffardo: Ho detto che ti voglio pagare un pranzo, mica che ti voglio comprare il ristorante!
Questo significa essere degli specialisti. Si va in profondità, si diventa maestri, si viene riconosciuti, si può vendere a caro prezzo il proprio operato, perché si diventa (quasi) insostituibili.
Gli specialisti diventano facilmente un punto di riferimento, un benchmark, raggiungendo la maestria e la padronanza completa di ciò che fanno.
A pensarci bene la specializzazione è anche il sogno della maggior parte dei bambini, e dei loro genitori. Quando si ha un talento o un interesse spiccato fin da piccoli e lo si persegue alacremente, probabilmente già in adolescenza si diventa una promessa in un determinato campo. Penso agli atleti, agli artisti, agli attori o anche agli scienziati. Avere talento e passione, seguire una strada definita ed eccellere, infonde sicurezza e pace in se stessi.
E infatti, statisticamente, gli specialisti sono in grado di ottenere stipendi significativamente più alti di quelli di un medio professionista. Sono una merce preziosa e rara, soprattutto in determinati settori. E poi, nell’epoca dell’endless media, essere grandi conoscitori di qualcosa (qualunque cosa) rende appetibilissimi ospiti per podcast, interviste, TED, TV, social…il che aumenta ulteriormente l’esposizione e quindi la fama.
Negli ultimi anni sto lavorando parecchio nella formazione finanziaria, e c’è un concetto che è un vero mantra del settore: l’interesse composto. Credo che questo concetto possa ben sposarsi con la professione dello specialista, poiché focalizzandosi sempre di più e sviluppando competenze sempre più specifiche si costruisce un sistema di conoscenze che si autoalimenta e cresce in modo esponenziale.
Ma nonostante questo sembri il manifesto del successo, cela qualche non secondario risvolto negativo. Vediamoli.
Perché essere un generalista?
Qual è il più grande limite degli specialisti? L'eccessiva parzialità.
Succede spesso che le loro convinzioni precedano un’attenta analisi oggettiva e con questo, sbaglino più del previsto.
Al contrario i generalisti, nel loro percorso più caotico e incerto, sono dotati di un’ampia varietà di competenze, sono più adattabili e pensano in modo “laterale”, unendo esperienze e insegnamenti tra i più disparati.
C’è un famoso TED, quello di Emilie Wapnick che racconta la sua storia di studentessa iper-curiosa ma incline alla noia e alla perdita di interesse. Nel suo percorso professionale le cose non sono cambiate, sbocconcellando qua e là in ruoli e settori molto diversi. Questa instabilità le ha causato inevitabilmente numerose ansie fino all’epifania che essere generalisti fa figo.
Il generalista procede a tentoni, seguendo il suo fiuto, passando periodi di “campionamento” e accumulando qualità molto diverse all’interno della stessa figura professionale. In ultimo, but not the least, la frequente incertezza del proprio destino e la continua ricerca dell’autorealizzazione rende il generalista più preparato al cambiamento e alla trasformazione.
Ed è qui che ci piomba addosso il presente.
Nell'incertezza in cui viviamo si richiede che le competenze siano collegate tra loro, talvolta da fili invisibili e che funzionino in contesti diversi. Gli avvenimenti futuri sono imprevedibili e le mappe che ci aiutavano a orientarci non sono più precise. Il paesaggio è cambiato. Il pensiero troppo lineare non è utile in un terreno nuovo e sconosciuto.
Nella terra delle startup, dei solopreneur, dei licenziamenti di massa, del quit-quitting, ciu skills is megl che uan. Come ha detto l'ex CEO di Google, Eric Schmidt: Un generalista intelligente non ha pregiudizi, quindi è libero di esaminare ogni possibile soluzione e di orientarsi verso la migliore.
Chi vince?
Storicamente, i generalisti sono sempre stati sottovalutati perché la strada dello specialista è più semplice e ben battuta, perché le opportunità di lavoro tradizionali tendono a cercare candidati che si adattino perfettamente alle descrizioni delle mansioni.
Questo è anche il motivo per cui molte persone non incasellabili in una specializzazione si sono rivolte all’imprenditoria piuttosto che alla carriera aziendale (sì, il piuttosto che è usato bene) nei decenni passati. Però le cose stanno cambiando molto velocemente e un generalista potrebbe avere più chance di adattamento nel nuovo contesto profondamente mutato.
Quando pensiamo alla nostra carriera (e al nostro futuro in generale), tendiamo a pensare che il presente continuerà nel futuro in modo lineare. Ma non è detto che il futuro si svolga così. E non è affatto detto, anzi è del tutto improbabile, che le richieste del mercato di siano le stesse tra 5, 10 o 20 anni. Il titolare di una tipografia in cui ho lavorato, ad esempio, è un cromista eccezionale, massimo conoscitore del ritocco fotografico e dei materiali di stampa.
Oggi la sua azienda non può più permettersi di avere dipendenti, ha le macchine ferme e tira avanti pur di arrivare alla pensione, una minima. Semplicemente, il mercato gli ha rivolto le spalle. La sua maestria nella cromia fotografica non è più utile in un contesto dove è molto più importante la velocità di pubblicazione rispetto alla qualità delle immagini, e poi l’automazione dei software più avanzati ha sostituito le sue mansioni (vedi Canva e simili). Anche l’attività di stampa, per restare sostenibile, ha richiesto un’economia di scala che solo internet poteva garantire, e quindi via al successo di colossi come Pixartprinting, Flyeralarm ecc, tanto che lui stesso, l’80% delle volte preferisce stampare online piuttosto che attaccare le macchine e dotarsi dello stock che poi resterebbe fermo in magazzino.
E quindi chi vince? Probabilmente, anche questa volta, in medium stat virtus, la verità sta nel mezzo.
La mia scelta, seguendo il consiglio di Tim Ferris, quello di 4-hours work week, è stata quella di “specializzarmi” in 3-4 competenze complementari e altamente richieste, continuando a sperimentare nell’adiacente possibile della mia sfera d’azione: scrittura creativa, marketing e sviluppo web. Potrei sbagliarmi, ma credo che qualsiasi azienda (mia o altri) ha o avrà bisogno di una storia da raccontare, di comunicare la sua proposta al pubblico e di trovare soluzioni innovative per posizionarsi sul mercato.
Proprio durante questo weekend passato con mio padre, ho guardato due interviste a due personaggi che adoro e mi fanno sbellicare dal ridere: la prima a Nino Frassica e la seconda a Valerio Lundini. Il primo, come consiglio ai più giovani ha consigliato di capire dove si è più bravi e specializzarsi al massimo in quella disciplina, il secondo, al contrario, non ama definirsi un comico ma più vagamente un autore, perché talvolta presenta in Tv, talvolta scrive testi per altri, talvolta disegna fumetti e talvolta suona con la sua band (ha anche rischiato di diventare il tastierista per Calcutta, ma ha dovuto rinunciare perché aveva ottenuto le prima date sulla Rai).
Mi sembra che queste due visioni rispecchiano perfettamente il cambiamento in atto. Forse la soluzione è una specializzazione generalista?
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