Never give up, ma veramente?
Siamo finiti a relegare la nostra vita privata negli interstizi fra una giornata lavorativa e l’altra, ai margini del tempo, perché abbiam paura del vuoto, o del nostro stesso riflesso.
Durante le poche volte in cui l’algoritmo di Instagram riesce ancora a fagocitarmi nel rullo dei reel senza fine, vengo puntualmente sovraesposto a video motivazionali, nei quali il messaggio imperante è, ancora e nonostante tutto, never give up.
Non mollare mai, a testa bassa verso l’obiettivo, qualsiasi esso sia.
Ogni volta, immancabilmente mi chiedo, ancora qua stiamo?
È paradossale se pensiamo di vivere nella società della stanchezza, di una stanchezza programmatica e ineluttabile.
Ci basta scavalcare leggermente il valico dell’intercalare per scoprire che ogni persona con cui decidiamo di condividere qualche parola sincera ti confessa di essere sull’orlo di dire: “adesso basta, non ne posso più!” come se fossimo tutti quanti su un tapis roulant che indica gli ultimi 59 secondi di corsa, ma riparte appena si avvicina allo zero. Dov’è che stiamo andando?
Dicevamo never give up, dunque. Credo che un messaggio così banale abbia trovato tanto successo mediatico perché si inserisce perfettamente nella narrativa workaholica della nostra epoca. Mascherato di motivazione, never give up sottintende il malcelato desiderio di non conoscere se stessi; in virtù del raggiungimento dell’obiettivo, si mette da parte l’analisi e la riflessione.
Di conseguenza, non mollando mai, rinunciamo alla comprensione di noi stessi e quindi all’auto-realizzazione autentica.
Never give up, subdolamente, confina la nostra vita privata negli interstizi fra una giornata lavorativa e l’altra, ai margini del tempo, perché never give up è anche paura del vuoto, o del nostro riflesso impaurito nello specchio.
In ultimo, never give up flirta una crescita economica impudente, quando è il nostro stesso pianeta che ci implora in tutti i modi di staccare la spina.
Al contrario, mollare la presa è, oltre che necessario, catartico. Mollare la presa significa abbandonarsi completamente alle proprie ossessioni, esplorare i limiti del proprio io, cedendo innocuamente all’inviolabile, tastare le pareti della propria grettezza facendosi graffiare dalle proprie debolezze, scivolare nel vizio, nella noia, nell’ambigua e contraddittoria natura umana.
È proprio durante queste “soste ancora umane”, citando Montale, che empatizziamo con la nostra parte oscura rendendola amica e meno spaventosa, sviluppiamo la capacità negativa di restare nel dubbio e nell’incertezza che forgia all’imprevisto, ci obblighiamo al riposo, ci avviciniamo un po’ di più all’immagine che abbiamo di noi stessi, ci sintonizziamo con la cosiddetta “voce interiore”.
Una vita vissuta portando il tronfio stendardo del never give up è una marcia bendata, militarmente cadenzata da continui richiami all’ordine della produzione a tutti i costi.
Quanto è confortante, invece, commiserarsi tra la luce fioca di un hangover, quando ci riconosciamo come gli stessi di sempre, simili a quelli che eravamo un tempo, imbecilli e felici. Proprio in quei risvegli del mezzogiorno che sanno di domenica, finiamo per concedersi il lusso del ciondolare nel letto pensando alle alternative percorribili, oppure ci ritroviamo a sfogliare vecchie foto, ascoltare un album dall’inizio alla fine, finendo per caso a guardare Linea Verde su Rai Uno per catapultarsi, in un attimo, in quei pranzi lunghi di famiglia, quando ancora era tutta insieme, con la bresaola sul tavolo, la lasagne nel forno e la mamma al telefono con la zia. Scappa una lacrima, mandiamo un messaggio dolce a qualcuno, ti voglio bene, mi voglio bene.
Forse, nelle increspature di queste emozioni sudaticce, possiamo finalmente riconoscerci e capire veramente cosa ci rende unici. E forse, ci capiterà di prendere con improvvisa lucidità una scelta determinante per la carriera, o troveremo l’idea per una nuova azienda in sintonia con la nostra idea di felicità.
Lascia la presa, abbraccia il fallimento, concediti il permesso di sprecare tempo. Ricordati che la massima ottimizzazione ha portato un popolo a pensare che le carcasse di un altro popolo potessero andare bene per produrre saponette.
La recente pandemia ha squarciato il cielo di carta del culto del lavoro sopra di noi, lasciandoci intravedere un’altra verità. Non oscuriamola ricucendo lo strappo. Perché, come diceva J. Keats, scorriamo sulla superficie del tempo, siamo qui soltanto di passaggio, e fino a prova contraria, questa è l’unica occasione che abbiamo per essere vivi.
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