La nuova, grande sfida per l’umanità
Mentre ci agitiamo terrorizzati all'idea che l'intelligenza artificiale possa un giorno superarci, stiamo già consegnando loro, pezzo dopo pezzo, tutto ciò che pensavamo ci rendesse unici
C'è una storia intorno all’intelligenza artificiale che non abbiamo ancora iniziato a raccontare. Non è una storia di robot intelligenti che si ribellano, no. Non è nemmeno la storia dei milioni di posti di lavoro che verranno sostituiti da una macchina. È molto più sottile, più intima. È la storia di come, giorno dopo giorno, stiamo dimenticando cosa significa essere umani.
Il filosofo e mistico Jiddu Krishnamurti l'aveva capito prima di tutti. Ottantacinque anni e una lucidità tagliente come un diamante, aveva visto quello che noi oggi facciamo fatica ad ammettere: il vero pericolo non sono le macchine che diventano come noi, ma noi che diventiamo come loro.
Pensaci. Mentre ci agitiamo terrorizzati all'idea che l'intelligenza artificiale possa un giorno superarci, stiamo già consegnando loro, pezzo dopo pezzo, tutto ciò che pensavamo ci rendesse unici. Non è un processo violento. È silenzioso, quasi impercettibile. Come una marea che sale lentamente, cancellando le impronte sulla spiaggia.
Ogni volta che ChatGPT o Claude scrivono un saggio migliore di uno studente universitario, ogni volta che un'IA genera un'opera d'arte che ci emoziona, ogni volta che un algoritmo risolve un problema che credevamo richiedesse "intelligenza umana", un pezzo della nostra identità va in frantumi. È come guardare in uno specchio che riflette non il nostro volto, ma la natura meccanica del nostro pensiero.
Un riflesso diafano che ci mostra come il nostro pensiero, quello che consideriamo la nostra killer application, sia in realtà un meccanismo ripetitivo, un ciclo infinito di esperienze-memoria-conoscenza.
Le macchine non ci stanno rubando nulla. Stanno solo mostrando quanto di meccanico c'è già in noi.
Attraverso il continuo rapporto con una tecnologia ipnotica e seducente, la stessa mente umana sta diventando un elaboratore di dati, un emulatore algoritmico. E ora che esistono intelligenze artificiali in grado di fare quello che facciamo noi - e spesso meglio di noi - ci troviamo di fronte a una scelta esistenziale: continuare a competere con le macchine sul loro terreno, o riscoprire ciò che ci rende veramente umani.
L’ascesa dei generalisti
Nei giorni scorsi, la morte di David Lynch ha riportato l'attenzione su una dimensione umana che rischia di perdersi. Lynch, regista visionario capace di esplorare i recessi più oscuri e irrazionali della coscienza, è stato ricordato sui social come un maestro dell'ignoto perché la sua arte era un viaggio costante oltre i confini della ragione, un'immersione nei territori inesplorati della mente che sfuggono a ogni logica computazionale.
E poi lo stesso Sam Altman, il CEO di OpenAI, ha ammesso in un’intervista: "Mio figlio non potrà mai essere più intelligente di un'intelligenza artificiale". Anche nella sua dichiarazione, ho percepito un invito a ridefinire l'intelligenza umana, guardando oltre l'ovvia competizione tecnologica. Altman vede un futuro in cui l'umano non compete con la macchina, ma la trascende. Creatività, empatia, pensiero critico: questi sono i nuovi confini, i territori che nessun algoritmo può completamente mappare.
Non è un caso che proprio ora, mentre le macchine diventano più intelligenti, stia emergendo un nuovo tipo di professionalità. Sono i generalisti, i costruttori di ponti interdisciplinari, quelli che il mercato del lavoro chiama "ibridi". Non sono specialisti in un singolo campo, ma maestri nel vedere connessioni, nel creare sintesi inaspettate, nel navigare la complessità con leggerezza.
Questi nuovi professionisti incarnano, forse senza saperlo, proprio quella mente non-meccanica di cui parlava Krishnamurti e che Altman desidera per suo figlio. Una mente che non si limita a processare informazioni, ma che danza tra diverse discipline, che crea collegamenti imprevisti, che resta aperta all'ignoto.
Il duplice sentiero della consapevolezza
Come prepararci allora a questo futuro che puzza di presente? La risposta è duplice; sintesi di una crasi perfetta di antico e contemporaneo.
Primo: dobbiamo sviluppare quella che Krishnamurti chiamava "intelligenza non pensante". Non è un ossimoro, ma una capacità profondamente umana di essere presenti, aperti, non condizionati dalla memoria meccanica. È la capacità di vedere ogni situazione come se fosse la prima volta, di rispondere alla vita con freschezza invece che con automatismi.
Secondo: dobbiamo coltivare quelle capacità che ci permettono di navigare tra diversi domini di conoscenza. Non per diventare tuttologi superficiali, ma per sviluppare quella che John Maeda chiama "creatività nelle intersezioni". È nei punti di contatto tra discipline diverse che nascono le intuizioni più preziose, quelle che nessuna IA può (ancora) replicare.
Trasumanare
Ecco allora che la sfida dell'intelligenza artificiale si trasforma in un'opportunità di evoluzione. Non si tratta di competere con le macchine nella velocità di calcolo o nella memoria. Si tratta di riscoprire e coltivare ciò che ci rende unicamente umani: la capacità di vedere collegamenti inaspettati, di provare empatia autentica, di creare significati nuovi. Dobbiamo imparare a morire ogni notte per rinascere ogni mattina con occhi nuovi.
E forse, in questo processo di ridefinizione, scopriremo che l'intelligenza artificiale non è il nostro nemico, ma una via per liberarci da ciò che non vogliamo più essere. Un invito a evolverci oltre la mente meccanica, verso una forma di intelligenza più profonda, più viva, più umana.
È una sfida immensa. Ma è anche la più grande opportunità che abbiamo mai avuto di ridefinire cosa significa essere umani. E questa volta, non lasciamo che sia l'algoritmo (o i pochissimi che li controllano) a scrivere la storia.
Un messaggio personale per generalisti confusi
Sono sempre stato un ibrido strano di tante cose. Abbattuto ma utopista. Spaventato ma sognatore. Ai tempi dell’università camminavo sull’orlo dell’inutilità e mi sentivo tanto cose e nessuna in particolare. Dicevo che nella vita avrei fatto un lavoro che ancora non esisteva, anzi, che avrei lavorato in un modo che ancora non esisteva. Ma non sapevo quale.
Finalmente posso dire di essere davvero soddisfatto di ciò che sono, nonostante anni di incespicare rabdomantico alla ricerca di un’identità sfuggevole. Oggi mi sento più libero di galleggiare sulle onde imprevedibili del presente, pur essendo lontano dal porto sicuro della specializzazione.
Se anche tu stai vivendo un rapporto simile con te stesso o te stessa, coltiva la tua interdisciplinarietà, gioca a incastrare i pezzi del tuo personalissimo puzzle professionale, e sappi che il mondo avrà sempre più bisogno di generalisti come te.
C’è pure questo TED che potrebbe tornarti utile 🙂
Alla bellezza (ma anche alla complessità) di essere generalisti: un'ottima riflessione