Il Mito della Caverna: da Platone a Matrix
Come uscire dalla caverna dell’illusione per avvicinarsi alla visione della realtà.
Negli ultimi tempi sto studiando moltissimo, e come un detective che osserva scrupolosamente la mappa degli omicidi davanti a sé (Stefano Nazzi ha irrimediabilmente preso il controllo di me stesso) vedo sempre più fili rossi che collegano discipline, pensatori e concetti molto distanti tra loro, improvvisamente assumere i contorni di un disegno decifrabile.
Oggi parto dal Mito della Caverna di Platone, passando per Dante e il mistico Rumi fino ad arrivare ai neuroscienziati contemporanei e al Matrix delle sorelle Wachowski. Un viaggio nel tempo e nello spazio per capirci qualcosa in più su come la coscienza percepisce la realtà che ci circonda, e su come fare per uscire dalla caverna dell’ignoranza.
Talvolta la vita mi sembra un’illusione, un disegno di qualcun altro, non vedo altro che contorni di realtà, ombre di verità. Platone aveva già individuato questo sentimento, e l’aveva magistralmente tradotto nel celebre Mito della Caverna. Questa allegoria millenaria, narrata nel VII libro della Repubblica, continua a risuonare attraverso i secoli come una delle più potenti metafore sulla condizione umana.
Mi sono chiesto: ha qualcosa da dirci ancora oggi? Perché tradizioni apparentemente lontane – dalla filosofia greca allo yoga indiano, dalla mistica sufi alla poesia dantesca – convergono tutte verso un’unica intuizione: che il mondo che percepiamo non è quello che realmente è?
Il racconto platonico: dalle ombre alla luce
Immagina degli uomini incatenati fin dalla nascita nel profondo di una caverna, con la testa immobilizzata in modo da vedere solo la parete di fronte a loro. Dietro arde un fuoco, e servi trasportano statuette che proiettano ombre sul muro. Per questi prigionieri, quelle ombre sono la realtà. Questo primo livello di conoscenza, che Platone chiama eikasia – immaginazione – rappresenta la condizione ordinaria della percezione umana: ciò che crediamo di vedere, non ciò che realmente è.
Uno dei prigionieri riesce a liberarsi, scopre le statuette (le opinioni culturali che ci condizionano), esce dalla caverna e viene accecato dalla luce del sole – simbolo del Bene, fonte di ogni verità. Quando torna per liberare i suoi compagni, viene deriso e minacciato. Perché? I prigionieri non sanno di essere imprigionati, quindi non possono desiderare la libertà. È un archetipo universale del risveglio della coscienza che attraversa culture e continenti.
Atman, Maya e Rumi: l’Oriente specchia l’Occidente
Mentre Platone componeva i suoi dialoghi, la filosofia vedica parlava di Maya – l’illusione cosmica che vela la vera natura della realtà. Proprio come i prigionieri scambiano le ombre per verità, gli esseri umani secondo lo yoga scambiano il mondo fenomenico per l’essenza ultima. Al cuore della tradizione sta la distinzione tra Atman (il Sé universale) e il mondo delle apparenze. Entrambe le tradizioni operano attraverso metafore luminose: il sole platonico e la luce della coscienza vedica che dissolve Maya.
Nel XIII secolo, Rumi (poeta persiano tanto caro a Battiato) porta questa intuizione a intensità straordinarie. Scrive: “Tutto quello che vedi nel mondo esiste ugualmente nell’altro mondo: o meglio le cose esistenti qui non sono che esempi del mondo di là.” Per il mistico sufi, i due mondi non sono separati da un abisso, ma sono dimensioni della stessa realtà. La caverna non è solo prigione da cui fuggire, ma spazio in cui riconoscere i segni del divino.
Rumi dice: “Ho dato via le opinioni su ogni cosa. Sono diventato un flauto di canna per il tuo respiro.” Il flauto è vuoto, senza opinioni proprie, eppure attraverso di esso passa il respiro divino che diventa musica. L’anima liberata dalle catene dell’ego diventa trasparente alla verità: è uscita dalla caverna pur rimanendovi.
Dante: l’architettura cosmica dell’anima
Dante costruisce nella Divina Commedia un’architettura che è viaggio personale e mappa universale dell’anima. L’Inferno è la caverna platonica alla sua massima espressione: tenebre, inversione dei valori, dannati letteralmente prigionieri dei loro peccati. Il Purgatorio rappresenta lo sforzo di ascesa, l’uscita dalla caverna, una ri-educazione progressiva dello sguardo. Il Paradiso è la visione diretta, la contemplazione del sole/Bene platonico.
Proprio per rappresentare lo sforzo di ascesa dal Purgatorio al Paradiso, Dante si inventa il termine trasumanar da cui prende il titolo questo progetto editoriale.
La struttura tripartita della Commedia corrisponde perfettamente ai livelli ontologici della caverna: l’inconscio inferiore (istinti e passioni), l’inconscio medio (emozioni e pensieri dualistici), e l’inconscio superiore (dove l’anima vive unità e libertà spirituale). Quando Dante raggiunge la rosa candida, sperimenta quella che Platone chiamava noesis, intellezione: una conoscenza immediata. E significativamente, le parole vengono meno – proprio come Platone poteva solo narrare un mito.
La neuroscienza: il cervello come costruttore di illusioni
Ti faccio fare un salto vertiginoso: le neuroscienze del XXI secolo stanno riscoprendo, con strumenti empirici, ciò che Platone intuì venticinque secoli fa. Anil Seth, neuroscienziato molto popolare (anche) per i suoi TED, ha formulato una tesi che suona come un’eco platonica: la percezione è una “allucinazione controllata”. Il cervello non registra passivamente il mondo esterno; genera continuamente modelli di realtà, verificandoli in tempo reale sugli input sensoriali. Ciò che chiamiamo “realtà” non è il mondo così com’è, ma il miglior modello che il cervello costruisce per navigarlo.
Seth sostiene che il cervello opera attraverso “inferenza bayesiana“: formula ipotesi su cosa sta accadendo e le corregge quando gli input contraddicono le previsioni. Inventiamo il nostro mondo momento per momento, e quando le nostre allucinazioni concordano con quelle altrui, chiamiamo questo consenso “realtà oggettiva”. I prigionieri concordano nel chiamare “realtà” le ombre, ma questo consenso non le rende meno illusorie.
Donald Hoffman, lo scienziato cognitivo autore de L’illusione della realtà, fa un passo ulteriore: la percezione è stata evolutivamente plasmata per nascondere la realtà. La sua “teoria dell’interfaccia percettiva” sostiene che i nostri sensi funzionano come l’interfaccia grafica di un computer: mostrano icone semplificate che permettono di interagire col sistema, ma non rivelano nulla della vera struttura del codice sottostante.
Secondo Hoffman, l’evoluzione non premia la percezione veritiera, ma quella adattativa. Meglio vedere un’icona semplificata – pericolo, cibo, partner – che perdersi nella complessità infinita della materia.
La politica attuale non sta andando nella stessa direzione? Meglio urlare slogan che risolvere problemi strutturali. Meglio accusare un nemico che comprendere le cause di un fenomeno.
Non solo non vediamo la realtà così com’è, ma siamo stati evolutivamente progettati per non vederla. Le catene platoniche non sono un incidente storico: sono parte della nostra architettura biologica.
Hoffman spinge la teoria fino a conclusioni radicali: anche spazio e tempo potrebbero essere artefatti della nostra interfaccia percettiva. La vera natura della realtà – il mondo delle Idee platonico, il Brahman vedico – potrebbe essere completamente al di là di qualsiasi cosa possiamo immaginare. Propone inoltre il “realismo cosciente”: la coscienza non emerge dalla materia, ma è la sostanza fondamentale che genera l’apparenza della materia. È un’inversione del materialismo che richiama tanto la filosofia vedica quanto il neoplatonismo.
Matrix e le caverne digitali
Non è casuale che Matrix (1999) abbia avuto tale impatto culturale. Umani ignari di vivere in una simulazione mentre i loro corpi giacciono in vasche: è una traduzione letterale del mito platonico nell’era digitale. Neo è un prigioniero che viene liberato dall’illusione e cerca di risvegliare altri prigionieri persi nella replica virtuale delle loro non-vite.
Ma viviamo un’epoca in cui l’esperienza mediata diventa primaria. Schermi, filtri social media, realtà aumentata: stiamo costruendo strati su strati di nuove caverne digitali. Paradossalmente, questa proliferazione ci rende più consapevoli del problema della mediazione. Come osservava Baudrillard, siamo nell’era dell’iperrealtà, dove la distinzione tra originale e copia, tra realtà e simulazione, sta collassando.
C’è una via d’uscita?
Per Platone, la filosofia libera attraverso dialettica e contemplazione. Per lo yoga, meditazione e disciplina ascetica squarciano il velo di Maya. Per Rumi, è l’amore divino che dissolve l’ego. Per Dante, la grazia divina mediata da ragione e fede. Ma per i neuroscienziati? Se la percezione è strutturalmente vincolata dalle necessità evolutive, dove sta la possibilità di liberazione?
Eppure c’è un’ironia: il fatto stesso che possiamo formulare queste teorie, immaginare una realtà oltre la percezione, costruire modelli matematici che predicono fenomeni mai osservati, suggerisce che la mente umana può trascendere i suoi limiti. Come diceva Einstein, “la cosa più incomprensibile dell’universo è che sia comprensibile”.
Tutte le tradizioni spirituali convergono su un punto: esiste uno stato di coscienza in cui la distinzione soggetto-oggetto si dissolve, in cui il velo cade. William James, studiando le esperienze mistiche, notò caratteristiche universali: ineffabilità, certezza di conoscenza, transitorietà, passività. Sono queste le caratteristiche dell’uscita dalla caverna? Del vedere direttamente il sole platonico? La neuroscienza sta studiando questi stati: i meditatori esperti mostrano pattern cerebrali unici, come se il cervello “disattivasse” temporaneamente l’interfaccia abituale.
Rumi scriveva: “La verità è uno specchio caduto dalle mani di Dio e andato in frantumi. Ognuno ne raccoglie un frammento e sostiene di possedere tutta la verità”. La caverna platonica ci ricorda che vediamo solo frammenti, ombre, riflessi. Ma riconoscere questo è già un passo fuori dalla caverna. Non verso la certezza assoluta – quella potrebbe essere un’illusione ancora più pericolosa – ma verso una saggezza più profonda: quella che sa di non sapere, ma continua a cercare.
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